lunedì 11 dicembre 2017

Controprocesso a Papa Francesco (di Pietro De Marco)

Il professor De Marco interviene e confuta le tesi di R.R. Reno, Borghesi e Ivereigh nel monografico del "Foglio" dedicato al Pontefice


Caro Direttore, Matteo Matzuzzi ci ha offerto una mappa delle diverse diagnosi del travaglio della Chiesa sotto il pontificato di papa Bergoglio. Ma la mappa finisce con l’essere, per la sua stessa ricchezza di informazioni, un repertorio esemplare di spiegazioni o “narrazioni” per lo più erronee che non è possibile “lasciar correre”. A momenti viene da dire a biografi e opinionisti, ma anche a battaglieri colleghi improvvisamente filo papali: ma ci credete senza memoria o ci prendete in giro?


Il processo a Papa Francesco

Il cattolicesimo sta andando incontro alla più grande trasformazione da molti secoli in qua: entro trent’anni i suoi bastioni saranno in Sudamerica, Africa e Asia. Indagine su come il Papa sta rivoluzionando, non senza divisioni, la più grande religione al mondo
Ripercorro l’articolo. Trovo quasi in incipit una vecchia conoscenza; sono infatti decenni che si descrivono e diagnosticano lo spostamento di asse mondiale della Chiesa, la nuova composizione del Collegio cardinalizio e della Curia romana, e le loro implicazioni “future”. La vera novità di oggi è che le istanze delle chiese africane e asiatiche non corrispondono alle attese dei novatori “conciliari”. Basta pensare alla fermezza cattolica e romana del card. Robert Sarah, guineano, prefetto della Congregazione dei riti, o alle posizioni dei vescovi d’Africa e Asia al Sinodo dei Vescovi del 2015 sul regime sacramentale dei divorziati. Così avviene che, quando si oppongono le cattolicità extraeuropee alle “vetuste chiese europee” e si depreca “l’arroccamento [della Chiesa in Europa] in fortini sempre più diroccati”, si pensa di confermare uno schema perenne (la freschezza del ‘nuovo’ ecclesiale contro la conservazione del tradizionale), ma è il contrario che è vero. Abbiamo la freschezza della tradizione (della continuità cattolica) contro la vecchiezza di innovazioni e rivoluzioni. Insomma, il paradosso inconsapevole che risiede in questi enunciati è che i ‘fortini’ che si designano non sono quelli di una Chiesa conservatrice (alla quale in genere si riservano dal Concilio in poi queste metafore belliche) ma le stesse chiese modernizzanti d’Europa. Ci si dà, usando una immagine d’altri tempi, la zappa sui piedi.

La vera novità di oggi è che le istanze delle chiese africane e asiatiche non corrispondono alle attese dei novatori 'conciliari'.
Così per un’immagine-diagnosi successiva: la crisi attuale deriverebbe dall’apertura del “vaso di Pandora” delle “tensioni accumulatesi nel postconcilio e tenute a bada nella lunga stagione giovanni-paolina” fino a Benedetto XVI. Questa suggestione, per quello che vale, non è errata ma sconta anch’essa un’ovvietà: la maggior parte dei giornalisti e commentatori che scrivono ora non ha conosciuto gli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso. Non sa o dimentica, cosa comunque strana (vi è tanta letteratura in proposito), che ben altro vaso di Pandora fu aperto dall’evento-Concilio; il suo contenuto, che non è propriamente il Concilio stesso, si riversò in una lunga stagione di divisioni e diaspore, cui Roma dovette far fronte. L’età del pontificato di Paolo VI, poi quella giovanni-paolina, “tennero a bada” non tensioni che si accumulavano, ma l’opposizione esplicita e il disfacimento aggressivo di intere chiese nazionali e di ampi ceti teologici, trasformati in intelligencija “critica”. Con un successo parziale e pagato caramente: la persistente opposizione ai pontefici, fino a ieri, dell’intelligencija ecclesiastica e laica d’élite, derive teologiche e pastorali e liturgiche, effettive eresie. Salito ora al soglio di Pietro un uomo di una di quelle chiese e di quella intelligencija, sia pure nella diversità latino-americana (che da qualche secolo non abita alla “fine del mondo”!), segnato a partire dal Concilio da forti venature antiromane, il dramma di allora è oggi divenuto farsa. Poiché il Papa, per oltre venti anni vescovo ausiliare poi arcivescovo di Buenos Aires, non può evitare di fare due parti in commedia, il papa e il vescovo “anticuriale”, un ruolo prefissato che trova sempre giustificazioni. E non credo per la sua natura dialettica. Ne parlerò più avanti.
Quel miracoloso ma limitato successo dei pontificati di resistenza, poi di nuova partenza dottrinale e universalistica della Cattolica, non autorizza a dire che se ne sia ricavato “un falso senso di stabilità”; l’opinione di R.R. Reno, direttore di quello splendido periodico che è “First Things”, con cui in genere concordo. Non so negli Stati Uniti, ma in Europa i ‘conservatori’ o, semplicemente, quanti restano convinti della oggettiva verità di ogni enunciato del Credo che professano, avevano solo sperato che all’apice del percorso giovanni-paolino e benedettino vi fosse una uscita dal tunnel, ovvero dalla liquidificazione dell’Una Sancta. Avevano, avevamo, goduto di una boccata d’aria dopo una troppo lunga sopravvivenza in apnea, mentre per altri (ma lo sapevamo) ogni “stabilità” o “solidità” residua era ancora qualcosa da minare o liquefare. Nessuna illusione di “stabilità” né che, al di fuori della sede di Pietro, tanti fenomeni in corso si arrestassero. Ci affidavamo e tutt’ora ci affidiamo, spes contra spem, al Capo del corpo che è la Chiesa, al suo Fondatore e alla Sua promessa di divina assistenza.
Ma la cultura di papa Bergoglio, si dice, è più complessa di quanto appare. Che, stando al saggio di Borghesi cui Matzuzzi fa riferimento, non ci si trovi con papa Bergoglio “di fronte a una persona che non possiede le categorie per affrontare il mondo contemporaneo”, non è dire granché. Quali sono le “categorie” con cui la Chiesa e Pietro possono (ma direi: devono) affrontare il cosiddetto “mondo contemporaneo”? E vi sono categorie variabili?

Quali sono le 'categorie' con cui la Chiesa e Pietro possono (ma direi: devono) affrontare il cosiddetto 'mondo contemporaneo'? E vi sono categorie variabili?
La Gaudium et Spes tentò, oltre mezzo secolo fa, questa operazione sulla fine del Concilio e, com’era inevitabile, ne risultò una Costituzione conciliare ridondante, eclettica, già vecchia quanto a categorie di analisi. Ne restò, nel breve giro di anni, un pacchetto di citazioni buone a tutto, purtroppo anche ad essere usate come popolare chiave ermeneutica del Concilio, quello considerato vitale, “traente”; delle ovvietà sub-teologiche furono usate come perno per interpretare un corpus teologico (Costituzioni, Dichiarazioni, Decreti) controverso ma, spesso, di alto livello. Davvero un dato strutturale, che spiega molto di un post-Concilio tra radicale e imbastardito. Suo difetto essenziale còlto subito dalle stesse culture progressiste “escatologistiche” - come si diceva, per distinguerle da quelle orizzontaliste, sociali, dette “incarnazionistiche” - era l’aver cercato una proiezione mondo-centrica della fede e della vita cristiana, più che la diagnosi dei “processi storici”. Era in realtà, quella della GS, una ri-costruzione moderatamente “secolare” di un canone di “mondo”; ovvero, era l’ideologia prodotta dallo stesso saeculum che veniva privilegiata e assimilata come parametro di verità dall’intelletto cattolico. Quel supplemento di visione su come il “mondo” laico-secolare intendeva se stesso non si sarebbe dimostrato fecondo; era una visione del mondo (non più critica ma tale da sembrare, al contrario, quasi normativa per i cattolici), non il Mondo contemporaneo. Era ideologia aliena, da analizzare con sguardo fermo, distante; fu invece assimilata come amica. Agevole già allora, per le menti più libere, la previsione (oggi la post-visione, la scienza di Epimeteo) della successiva colluvies di equivoci e errori nell’esistenza credente.
Caro direttore, intenderci con i lettori su questi punti è importante. Papa Bergoglio ha certamente delle “categorie per affrontare il mondo”: ha anzitutto quelle del secolarismo cattolico. Di tanto in tanto il suo eloquio sembra sottintendere: But I can’t believe!, “questo non posso crederlo”, con J. A. T. Robinson, professore di Nuovo Testamento, vescovo anglicano, celebre per Honest to God, 1963, in Italia tradotto come Dio non è così (ma l’espressione equivale ad un Perdio! scelto dal buon vescovo per la sua equivocità ’esemplare’). ‘Non possiamo più credere x o y’, con le sue implicazioni, fu un canone popolare, alla portata di chiunque, anzitutto del clero e dei laicati colti. Innestato su molte altre mode e parole d’ordine, rivestito di ermeneutica, ha avuto lunga vita, e perdura.

Quali arroccamenti e su quale scacchiera?
Come credere, allora, che la Chiesa si sia “adagiata”, “chiusa in se stessa” dopo la caduta del Muro di Berlino come Borghesi spiega a Matzuzzi, e che “Bergoglio la riapre alla storia”? Quale chiesa? Che chiusura su di sé può praticare, su quali contenuti e forti istituzioni, una chiesa permeata da decenni di secolarismo (debole) se non in capite certo in membris? Da un lato, e dall’altro, quanta chiesa, non coincidente con questa, rimasta su tutte le frontiere? Ovviamente la diagnosi è empiricamente falsa. È vero semmai qualcosa di molto diverso e più volte diagnosticato: dopo il collasso della stagione politica, ha prevalso nell’onda lunga del post-concilio una visione dualistica (essere contro apparire, manifestarsi) della cosiddetta comunità cristiana in sé e per sé, che dovrà essere orante, celebrante ma, possibilmente, invisibile lievito - quasi il senso del lievito sia nel suo scomparire, più che il suo visibile operare, nell’impasto. Dunque non “pubblica” o politica, contro la supposta visione militante, di riconquista, del Novecento cattolico preconciliare, ma in effetti contro la vicenda millenaria della Cristianità. In compenso, e come conseguenza cercata, oltre il confine della “comunità” ogni singolo cristiano opererà “laicamente”, con totale arbitrarietà. È l’essenza della ‘scelta religiosa’ dei lontani anni Settanta. Questa disarticolazione tra fede e agire conseguente (non certo conforme ai modelli etici e politici millenari), era già stata di molte élites cattoliche, dagli anni Sessanta. Ma fu un drammatico segnale quando venne proclamata da una storica organizzazione del laicato per sua natura ordinata alla “azione cattolica”, formale e pubblica. E questa era la sua natura religiosa. “Azione cattolica” è formula ottocentesca, allora nuova, preesistente all’organizzazione laicale che prese questo nome e che non avrebbe potuto esistere in forma diversa. E l’AC non sopravvisse.
In terra cattolica, negli ultimi cinquant’anni, hanno operato sia radicali e diffusi indebolimenti secolaristici, sia l’attrazione per il Sektentypus (la tipologia protestante della piccola comunità di salvati) e uno spiritualismo anti-istituzionale, la crisi della missio (poiché il “cristiano anonimo” ha in sé idoneità sufficiente alla salvezza), la conseguente fine della presenza universalistica del clero: la fine della direzione spirituale diretta a chiunque [si direbbe ora: vada dallo psichiatra!], l’abbandono dell’abito e la mimetizzazione sociale. Invece di un prete palese, per tutti e di fronte a tutti, un uomo chiuso in canonica con la sua cerchia di parrocchiani “amici” e cento attività secondarie. Costituisce una assoluta confusione mentale, un collage inconsulto di dati e di analisi, sostenere che questa condizione di comunità, questo perseguire un ecclesiale in sé e per sé, che hanno prevalso, tra candore e mediocrità teologica, e distruzioni del passato, nelle parrocchie “riformate” dal Concilio (quelle che ancora esistono) specialmente in Europa, possano essere analogati a fortini o steccati o muraglie, secondo parametri da anni Sessanta. Se vi sono in Europa realtà ecclesiali, diroccate, cadenti, queste sono i prodotti del Concilio o, come preferisco dire, del suo cosiddetto “spirito”. Un quadro plurinazionale che coesiste e si oppone in Europa ad un altro, divergente, di chiese cattoliche nazionali, maggioritarie o meno, ma “resistenti” alle secolarizzazioni. Esemplare la polacca; miracolosa, agli inizi del terzo Millennio, la capacità di volersi rempart, baluardo e scudo, della Cristianità, mostrata nella catena di pellegrinaggi e rosari ai confini orientali ma anche occidentali! Aggiungiamo una residua capacità di resistenza di Italia e Spagna e delle stesse isole di identità cattolica nelle aree francofone. Qualcuno, cui manca ogni voglia celebrativa, sottolinea piuttosto i pericoli di una tale geografia di rapporti. Le divergenze tra chiese, anzi tra cattolicità, non troverebbero, per la prima volta da secoli, un punto equilibratore e regolatore in Roma, anzi proprio nel Papa un (il) fattore di divisione.

Se non ha corrispondenza con le cose affermare che “oggi siamo tornati nel recinto e questo rischia di clericalizzare la chiesa”, neppure ha senso dichiarare che “il Papa risulta essere destabilizzante per chi ama un mondo trincerato”?
Papa Bergoglio ha ragione quando stimola ad uscire e andare per le strade, ma è come non avvertisse che il “ritrarsi” spiritualistico e “rispettoso” (della laicità e dell’autonomia degli altri, dei valori del cristiano anonimo e via dicendo) da parte di preti e pastori, che oggi ha almeno un quarto di secolo, non ha niente a che fare con gli “antichi bastioni”, tema retorico della sua, nostra, giovinezza. Borghesi cita von Balthasar, Abbattere i bastioni! Bene, ma eravamo appunto nel 1952. Senza contare che il grande teologo e intellettuale, dalla sua Svizzera, forse non capiva bene quale fosse la situazione dell’Italia e di gran parte dell’Europa continentale, sotto la interna sfida comunista. In Vaticano si era meglio informati.
Di fronte ai laicati “conciliari”, minoritaristi e ostili a Roma, permeabili e mimetici verso tutto quanto non fosse cattolico (penso alla tragedia delle chiese protagoniste del Concilio, quelle francofone come quella olandese) l’opera di Giovanni Paolo II aveva già puntato su forze altre: i giovani, le chiese non europee, le stesse aree ecclesiali ‘tradizionali’, e riscoperto la essenziale ‘pubblicità’, in senso affine a quello giuridico, della Chiesa. Così, dire ora che “la Chiesa non può chiudersi entro il recinto di tre o quattro valori non negoziabili”, fa parte dei controsensi di una deformazione della realtà e di un cattivo uso della categorie. Con la battaglia sulle questioni bioetiche la Chiesa è stata, ed è, pubblica, alla luce del sole, conforme al proprio compito universale. Non casualmente queste battaglie furono accusate di ingerenza politica. Ma quale segnale più convincente della presenza cristiana attiva nelle banlieues spirituali della reazione che essa suscita in chi è responsabile di quelle rovine morali? Quale peggior segnale, invece, che questi soggetti responsabili (maîtres à penser, ceti intellettuali e politici ‘laici’) invece ti blandiscano, ti elogino?
E se non ha corrispondenza con le cose affermare che “oggi siamo tornati nel recinto e questo rischia di clericalizzare la chiesa”, neppure ha senso dichiarare che “il Papa risulta essere destabilizzante per chi ama un mondo trincerato”? Chi si sente in trincea? Il parroco che predica un Gesù accostante, solo umano e amorevole, perché non osa (o non sa) dire altro? Il prelato che, ormai stancamente, elogia i ‘lontani’? Per avere trincee bisogna aver qualcosa e qualcuno da proporre ed anche difendere; bisogna accettare, con coraggio, di avere anche nemici. Non è questo il caso oggi prevalente, anche se nello stringere le mani a tutti (nel limiti della correctness mondiale!) non vi è niente di virtuoso. Certo, chi combatte sembra avere trincee; così il mondo cattolico conservatore, o tradizionale, minoritario, che è però (anche) l’unico mondo che va allo scoperto, oltre le “trincee”. La convinzione pigra e politically correct che, essendo la missio per definizione pacifica (in realtà essa è annuncio della recuperata pace con Dio), per predicare si debbano cercare condizioni epidermiche di non conflitto, è un fragile sofisma che contrasta con l’intera esperienza della missione cristiana, dalle sue origini.
Non vi è topos, insomma, tra quelli documentati da Matzuzzi o reperibili negli autori che cita e in altri ancora, che non sia vecchio, o fuori contesto, o usato controsenso. Con il pontificato attuale schieramenti e significati (meglio: denotazioni) di parole sono mutati; questo, non il “puro vangelo” del Papa, è disorientante. Cercavo di spiegare ad una coppia di giovani (con figli) partecipanti alla Marcia per la vita, quale coerenza possa esserci tra la fedeltà al supremo magistero del vescovo di Roma, sempre creduto dal mondo “tradizionale”, e la contemporanea opposizione di questo mondo all’attuale pontefice. È sintomatico, dicevo, che le subculture cattoliche duramente antiromane da oltre mezzo secolo, oggi proclamino per la prima volta (loro!) una autorità del magistero ordinario, in senso estesivo, del Papa non suscettibile di critica. Si tratta di una geometria di posizioni ecclesiali alterata, normalmente incomprensibile. Infatti gli ex- oppositori di Roma non ammettono certo di essere diventati solo tatticamente filo- romani, perché a Roma c’è un papa che fa quello che piace loro, rigore dottrinale o meno, cosa che a questi ambienti non importa. Si trovano simpliciter e comodamente, per ora, ad essere i difensori del Papa. Il mondo conservatore invece, quello diretto e palese della Correctio, sa di avere l’onere di spiegare che una interna e intollerabile contraddizione resterebbe, se non si procedesse, come si è fatto, ad affermare che il papa attuale è talora gravemente in errore. E non può essergli dovuto assenso, almeno sui terreni in cui si muove senza la prudenza e la scienza (senza doni dello Spirito santo) che il suo munus gli impone. “I trascendentali sono inseparabili. La misericordia non può [in sé] essere contrapposta alla verità, sono due poli della stessa tensione ecc.”, ricorda Borghesi. Ma l’onere della prova d’essere dentro e non fuori questa dialettica è ora a carico del Papa.

Che Bergoglio abbia della chiesa una visione dialettica è possibile, forse scontato. Ma dialettica è categoria da trattare con rispetto
L’idea (Ivereigh) che “Francesco sta dicendo: bene, abbiamo risolto le questioni dottrinali, ora salviamo e guariamo” è davvero comica; talmente falsa la premessa “abbiamo risolto” che può nascere nella testa di chi non conosce né chiesa, né teologia, né storia. L’azzardata formula è preceduta da una più ampia lettura delle cose, del tutto erronea: “Francesco sta recuperando la dinamica pastorale del Concilio Vaticano II, che si è persa nel (necessario) processo di stabilizzazione postconciliare, in cui l’attenzione era rivolta all’ortodossia e all’obbedienza”. Ho già detto in proposito. Qualcosa è vero, ma solo sul polo dell’intenzione dei Pontefici; se ci limita, cioè, a parlare della “attenzione” di Roma e talora delle gerarchie nazionali, non di una conseguente e oggettiva “stabilizzazione”. Nella cattolicità molto è andato diversamente (quando non in forma decisamente aberrante); la dinamica pastorale del post-Concilio è sempre attiva e, se vi sono “stabilizzazioni” nelle parrocchie come nei movimenti o negli ordini religiosi, esse sono senza ortodossia né obbedienza.
Il giochetto di connotare i critici del Papa come gli uomini dalle “lenti sfocate”, “terrorizzati” dal nuovo, con “rendite di potere”, si scopre facilmente come inconsistente. I pezzi del puzzle in mano agli apologeti di Bergoglio non vanno a posto, non è quella l’immagine da ricostruire. Non si inventano impunemente delle narrazioni implausibili.

L’intellettuale Bergoglio.
Vi sono segnali cólti in papa Bergoglio, come ad esempio l’enunciato che “la realtà è più importante dell’idea”? Nella sua generazione, come nella mia, era diffuso questo topos anti-idealistico, tra pragmatismo ed esistenzialismo (e “filosofia della prassi”, vagamente marxista), perché sembrava risolvere la discussione sul primato della orto-prassi rispetto alla orto-dossia. Un equivoco tra i tanti, letali, di quella infelice stagione. Come può esservi orto-prassi cristiana senza un retto credere, se non presupponendo che l’orto-prassi di un cristiano sia ormai dettata da fuori della Tradizione e della Chiesa, da altre e opposte visioni del mondo? Così fu effettivamente negli anni Sessanta-Settanta, nei quali l’ortoprassi cristiana doveva essere esemplata sulle prassi rivoluzionarie e/o di liberazione. Dopo quella fase l’ortoprassi sarà esemplificata sulle libertà dei post-Moderni, proprio come la cultura comunista si muterà in “rivoluzione” dei diritti individuali. Papa Bergoglio è dentro una eredità cattolica del genere, e i suoi modelli di orto-prassi sono quelli non eroici delle quotidianità secolarizzate (quelle del sintomatico “chi sono io per giudicare?”) e post-cristiane.
La questione della cultura intellettuale di p. Jorge M. Bergoglio s.j. affrontata da Borghesi mi attrae molto, comunque; l’analisi delle culture filosofiche è il mio terreno di formazione. Mi limito a quanto Matzuzzi riporta, perché non ho ancora letto il libro di Borghesi; ma ho personalmente molta stima per l’autore di cui conosco altre cose. Che Bergoglio abbia della chiesa una visione dialettica è possibile, forse scontato. Ma dialettica è categoria da trattare con rispetto, non si tratta di credere che è vero A ma anche il suo contrario, pericolosa propensione questa che vecchi collaboratori argentini di Bergoglio gli attribuiscono.
Una visione dialettica della Chiesa condurrebbe ad esempio a pensare necessari gli opposti (detto per semplicità) dell’istituzione e dell’evento, del mistero-sacramento e della parola, della singolarità e della comunità, dell’interiorità e del culto pubblico. In una dialettica i termini che si oppongono vengono nell’opposizione stessa dotati di senso profondo e irriducibile. In Bergoglio non compare granché del genere. Il Papa, al contrario, sembra voler deprimere o trascurare quello che, nelle opposizioni che supponiamo essergli care, considera “superato” o dato staticamente: la liturgia ad esempio, celebrata sciattamente come per un obbligo formale, e la stessa istituzione ecclesiastica, che Bergoglio solamente “usa”. Forse la “dialettica” che predilige è tra Chiesa e mondo, ma è veramente dialettica o piuttosto una relazione in cui le distinzioni si liquidificano per risolvere preoccupazioni pratiche? Dov’è l’opposizione polare (il Gegensatz che presiede al concreto-vivente) del giovane Guardini, cui Borghesi rinvia? Ricordo: “La teoria degli opposti [...] parla di opposizioni non di contraddizioni. Le sintesi dei contraddittori, come sono presentate dal monismo, si spiegano col fatto che nessun concetto vi è pensato fino in fondo, nessuna essenza è vista con chiarezza, nessun confine è nettamente tracciato”.
Che “la legge che governa l’unità della Chiesa sia basata su una dialettica polare che tiene uniti gli opposti senza annullarli” è un paradigma corretto e importante. Ma è, in sostanza, la tesi della Chiesa cattolica come complexio oppositorum cara a grandi intellettuali tedeschi da Harnack a Carl Schmitt, passando per un autorevole studioso di religioni, Friedrich Heiler, che proveniva dal cattolicesimo. Salvo che in Schmitt, si trattava anche di una tesi che apprezzava storicamente ma condannava, infine, religiosamente il Katholizismus nella prospettiva protestante-liberale. E non è prospettiva che il “riformismo” cattolico, intimamente protestantizzante dalla dogmatica alla liturgia, prediliga.
Anche per queste ragioni, credo, non si trova un’idea “dialettica” di complexio nel Papa. Né dialettica né complexio di opposti hanno a che fare con i pragmatici “x ma anche y” che si intravedono nei suoi atteggiamenti, tantomeno con l’adesione a x stamani e al suo contrario stasera. Che poi, sempre sulla falsariga delle ipotesi di Borghesi, Karl Rahner non abbia avuto influenza su Bergoglio non è plausibile, poiché direttamente e indirettamente, attraverso molti tramiti e molte semplificazioni, Rahner è arrivato ovunque (cfr. De Marco, 2017). Mentre le linee che Hans U. von Balthasar sviluppò contro Rahner, quando il post-concilio apparve per ciò che era in molti ambienti e intelletti (falsificazione del dato conciliare, in una ipnotica inconsapevolezza), non affiorano assolutamente. Erano diventate, d’altronde, le passioni teologiche di una opposizione di minoranza, la rivista “Communio”, entro l’originaria militanza di Comunione e Liberazione, e altri periodici, che non si leggevano sui fronti cui Bergoglio apparteneva.
E non parliamo di Gaston Fessard s.j., il penetrante diagnostico degli errori del neotomismo degli anni Trenta-Quaranta acriticamente recettivo delle culture marxiste (il p. Chenu, ma anche Maritain) e geniale interprete di Hegel in teologia della storia, anzitutto. Ma i confratelli della Società non pubblicarono né il suo volume di dura critica alle teologie della liberazione (1968), tradotto in spagnolo (1979) e diffuso in America Latina, né il terzo volume della Dialettica degli Esercizi spirituali (postumo, 1984). Penso che se il giovane p. Bergoglio s.j. fosse stato veramente allievo di Fessard la sua maturazione intellettuale avrebbe conosciuto un altro percorso. E non parlo di teologia della liberazione, cui sappiamo che anche Bergoglio si oppose.

La “nuova era per la Chiesa” è iniziata da mezzo secolo e questo imporrebbe, come ho detto, più che ripetizione e enfasi di vecchi slogan, una analisi critica e un consuntivo coraggioso dei suoi effetti inattesi e dei suoi visibili fallimenti.
Non si deve togliere alla fervida speranza di Ivereigh e di altri niente di ciò che essa attende di buono da questo pontificato, ma prendiamo le misure delle cose. La “nuova era per la Chiesa” è iniziata da mezzo secolo e questo imporrebbe, come ho detto, più che ripetizione e enfasi di vecchi slogan, una analisi critica e un consuntivo coraggioso dei suoi effetti inattesi e dei suoi visibili fallimenti. La “credibilità della Chiesa, e la sua statura del mondo”, mai perduta in sé, è stata riconquistata da una trentina d’anni a livello pubblico mondiale da Giovanni Paolo II. E l’equilibrio, la complexio espressa dal pontificato wojtyłiano andrebbero meditati; non vi è per ora che una continuità marginale. Dire che “lo stile carismatico e personale di grande calore e sincerità” (quanto stabili e profondi questi tratti di stile?) renda “il papato molto più vicino al Vangelo”, corrisponde poi ad un’idea epidermica e un po’ salottiera della parola di Dio. Leggo che il programma di Francesco, quello eversivo del nostro gusto per le trincee, sarebbe “andare più vicino alle persone nelle loro realtà concrete, aiutandole a trovare la grazia” (ci si rendesse mai conto di quello che significano parole così importanti, invece di usarle a vanvera!) con una “proclamazione che sia kerygmatica e indichi la misericordia di Dio”. Sono parole d’ordine che, con minime varianti, hanno oltre mezzo secolo, in Europa e in America Latina. Furono e restano ambigue, minimalistiche, senza sostanza di mistero e sacramento in mano a entusiasti e sprovveduti. Ai loro effetti variamente combinati, perversi (non vi furono solo questi, certamente), si deve l’autodistruzione delle chiese europee, con poche eccezioni, nonché l’avanzata, in America Latina, delle ‘sette’ evangelical, molto più acute nell’individuare le “realtà concrete” e le vie personali (estatiche quanto pragmatiche) di enpowerment e salvezza. Non risulta che i vescovi dell’America Latina, e in particolare l’Arcivescovo di Buenos Aires con cariche di più estesa responsabilità, ora Papa, abbiano ammesso su questo fronte l’insufficienza della loro pastorale così accostante e nuova.
Non dobbiamo accettare, insomma, che, per gettare legittimi ponti di comprensione verso papa Bergoglio, si disegnino mappe della realtà fantastiche o ingannevoli.
Grato per la ricchezza del contributo di Matzuzzi e per l’intelligenza del Foglio nell’averlo ospitato nella sua inconsueta estensione, saluto cordialmente.

Pietro De Marco

Fonte: "Il Foglio" del 10- XII- 2017

domenica 10 dicembre 2017

IL CARDINALE DOMENICO BARTOLUCCI Dal Mugello alla Sistina, una vita polifonica (di Guido Scatizzi)

Era il 20 novembre 2010, quando papa Benedetto XVI volle onorare della sacra porpora il Maestro mons. Domenico Bartolucci, del clero fiorentino. All’epoca, alla venerabile età di 93 anni, si trattava del cardinale nominato più anziano di sempre nella storia della Chiesa. Il motivo di un simile privilegio non era certo difficile da comprendere, guardando a “le opere e i giorni” di questo nostro conterraneo.
Nato a Borgo San Lorenzo il 7 maggio 1917, Bartolucci dopo le scuole era entrato nel Seminario Maggiore di Firenze, esperienza della quale conserverà sempre un fulgido ricordo per la vita religiosamente orientata che caratterizzava la formazione del clero. Qui, oltre agli studî ordinarî, si dedicò ben presto alla musica e al canto sacro, affiancando Domenico Bagnoli, Maestro di Cappella del Duomo di Firenze. Alla morte dello stesso, sarà proprio Bartolucci a succedergli (e tutt’ora è un suo diligente discepolo, il Maestro Michele Manganelli, a ricoprire tale ruolo). Nel 1939, anno in cui venne ordinato sacerdote, si diplomò anche in composizione e direzione d’orchestra presso il conservatorio fiorentino; dal 1942 invece proseguì a Roma, ospite del prestigioso Almo Collegio Capranica, gli studî musicali. In poco tempo, dopo aver ricoperto il ruolo di vice Maestro di San Giovanni in Laterano, ascese alla direzione della Cappella Musicale Liberiana di Santa Maria Maggiore, nel 1947, ruolo che ricoprirà per un trentennio, quando lascerà la celeberrima corale nelle mani di uno dei suoi più noti allievi, l’attuale Maestro mons. Valentino Miserachs Grau. Risale a quest’epoca, proprio al maggio del 1947, la musicazione dell’Inno Eucaristico In Te credo Dio nascosto, composto dal “cattolico belva” Domenico Giuliotti in occasione del Congresso Eucaristico tenutosi a Greve in Chianti.
Nel 1952, su indicazione di mons. Lorenzo Perosi, Maestro della Cappella Musicale Pontificia “Sistina”, fu nominato Maestro sostituto della stessa. Alla morte del Perosi, papa Pio XII gli conferì l’incarico di Direttore perpetuo dell’insigne “Sistina”: il complesso musicale si trovava in precarie condizioni, dopo la pluricinquantennale direzione precedente, e Mons. Bartolucci, con zelo e fedeltà alla musica polifonica che tanto amava, avviò un’opera di risanamento che portò la Cappella ad alternare l’accompagnamento delle liturgie papali con tournée nei cinque continenti dell’orbe. Negli anni del Concilio Vaticano II (1962-1965), contrario all’abbandono della lingua latina come lingua liturgica tanto del parlato quanto del cantato, si spese affinché il patrimonio musicale sacro, che affonda le sue radici gloriose nella polifonia palestriniana, come anche il canto gregoriano non venissero accantonati. Furono proprio quei cambiamenti insperati, ma tristemente giunti, che portarono nel 1997 alla sua sostituzione con il Maestro Giuseppe Liberto, in modo che la “Sistina” si adattasse maggiormente allo stile liturgico (o sedicente tale) del Maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, mons. Piero Marini. Furono certamente anni tristi e desolanti per il Maestro mugellano, che non smise mai di celebrare la S. Messa secondo il rito di S. Pio V (cosiddetto rito romano antico).
In occasione del suo 85° genetliaco, con l'obiettivo di conservare e diffondere il notevole patrimonio musicale composto da Bartolucci, fu costituita la Fondazione Domenico Bartolucci, con presidente del comitato d'onore, di cui faceva parte anche l’allora card. Joseph Ratzinger, il card. Sergio Sebastiani. Il nuovo pontefice Benedetto XVI, che da cardinale si era strenuamente opposto alla rimozione del Maestro dalla direzione della “Sistina”, lo chiamò per un concerto in Vaticano il 24 giugno 2006. Ma il tributo volle esser ancor più tangibile, con la creazione a Principe della Chiesa che si rammentava in incipit. Come rispettivo e devoto ringraziamento, l’ormai card. Bartolucci offrì al papa un altro concerto, nel Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo il 31 agosto 2011, per la cui occasione compose il pezzo Benedictus (che riecheggiava il nome del pontefice felicemente regnante).
Si è spento l’11 novembre 2013, all’età di 96 anni, e le esequie, presiedute dal card. Angelo Sodano, si sono tenute il 13 novembre all’Altare della Cattedra della Basilica di San Pietro, con il rito dell’ultima commendatio e della valedictio presieduti da papa Franesco. La cara salma destinata alla pieve di Santa Maria a Montefloscoli (Borgo San Lorenzo), dove era solito trascorrere le ferie estive, nel mai dimenticato Mugello, si trova ancora presso il cimitero della Venerabile Misericordia.
L’opera del Maestro card. Bartolucci resta un punto di riferimento per chiunque intenda dedicarsi allo studio o al semplice ascolto, che si fa preghiera, della grande tradizione di musica sacra. Con sorpresa, tuttavia, nella scorsa primavera l’Arcivescovo di Firenze, card. Giuseppe Betori, ha annunciato che un’opera lirica inedita del Maestro è stata inserita nella Stagione Lirica 2018-2019 del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino: si tratta del Brunellesco, opera lirica in tre atti per coro e orchestra, narrante la storia del progetto e della costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore in Firenze. La sua prima esecuzione è stata fissata proprio per il dicembre 2018, esattamente seicento anni dopo la presentazione del progetto di Filippo Brunelleschi e l’avvio della costruzione della magnificente cupola.
Sacro e profano, sulle note ricercate e autentiche di questo sapiente compositore, hanno saputo comunicare prolificamente nell’opera di una vita devota e… polifonica.


Guido Scatizzi

FONTE "IL GALLETTO" settimanale 2 dicembre 2017